Sono in El Salvador: era molto che non ci venivo per starci, c’ero passato alcune volte in questi anni, ma solo per attraversarlo. Ricordi, in questo piccolo e intenso Paese, come fosse trascorso sempre un giorno e non è mai così. Oggi qui si vive una transizione, un periodo di passaggio, la sfida della libertà sembra essere la
consapevolezza che la pace si può trovare con l’abbandono della violenza. Sembra facile immaginare che il Paese con il più alto tasso di omicidi (nel 2015 è stato il Paese più violento dell’America Centrale con 6.657 omicidi registrati, 2.806 denunce di violenza fisica e 575 femminicidi) sia ancorato inevitabilmente alla dannazione. È un Paese giovane, dove si richiede un totale cambiamento, una vitale speranza, dove la nonviolenza deve diventare la pratica quotidiana di lavoro personale, dove l’accettazione dell’altro deve essere un orientamento costante dell’educazione. Manca il lavoro, ma il lavoro non basta: deve nascere una scuola della nonviolenza, un luogo dove fare testimonianza di pace nella vita quotidiana, tutti dobbiamo venire qui per sostenere, è necessario più che mai.
Arrivo con Gisselle che coordina COSPE. Gisselle è nicaraguense, io amo il popolo nicaraguense, devo molto a questo tratto di Centro America più a sud, alla loro insaziabile voglia di vivere, al loro spirito libero, lì sono stato da giovane.
Strade lunghe, curve, appena abbozzate, confuse e distorte. Tante strade in El Salvador attraversano una terra corta e stretta lungo i vulcani e il Pacifico. Strade intense che quando si allontanano dai confini con l’Honduras diventano colme di traffico, difficili da sostenere, impossibili da attraversare.
Siamo arrivati a San Salvador, dopo delicate manovre e con la batteria dell’auto che non si decideva a collaborare, siamo arrivati, ma non siamo certi che sia stata una buona idea, l’ora di punta è bidirezionale e alla fine ci ha trascinati nel gorgoglio delle automobili che girano in tondo, senza disegnare una civile convivenza.
Tutto diventa una matassa inestricabile di fili che soffocano San Salvador, che stringono in una morsa la città, la quale non riesce più a sfuggire e si adatta al suo destino, definitivamente soccombe. Non esiste più una destra e una sinistra, un angolo per girare, un parcheggio dove attraccare, tutti si muovono e continuano a farlo finché il tempo si dissolve (e di tempo ne passa tanto…), finché tutto svanisce e nella notte che è arrivata appare il deserto. Nessuno si spiega come le migliaia di auto siano scomparse, ora che è notte ci chiediamo dove siano. Nessuno conosce il destino di auto, camion, motorini, si sa che ci sono stati e il giorno dopo, domani, ci saranno ancora, come una condanna inevitabile, come se gli umani non governassero il loro movimento e non conoscessero più il loro significato. Questo destino è comune a tutte le città, passiamo parte della nostra vita rinchiusi in una latta intrisa di polveri sottili. E mentre i pensieri mi attraversano cercando di passeggiare sopra marciapiedi difficili, scoscesi e colmi di insidie, passa un autobus feroce che dal rumore rende evidente la sua aggressiva intenzione: ecco che allora siamo divisi, cancellati, non siamo più nessuno, non esiste più niente, spero solo di toccare la terra ferma, trovare riparo tra le mura di una casa affinché tutto cessi; e così succede.
Eccoci qui cercando riparo in un grande magazzino, un intrigo commerciale nel quale si scaraventano intere famiglie alla ricerca di un desiderio che inevitabilmente non si appaga. File interminabili di negozi che cercano di attirarti con richiami e giochi di ruolo. Ti senti uno di loro, sei parte di una comunità consumatrice, pensi di essere tu il padrone di tutto questo circo di esibizioni. Ma come sempre succede sei in gabbia pensando che la libertà si possa trovare lì dentro. A fatica, invece, troviamo l’uscita dopo aver acquistato alcuni oggetti che hanno rapito la nostra attenzione e che ora sono nostri, per sempre. Trovare un segno che distingue una appartenenza è difficile, ma io e Gisselle ci ostiniamo a farlo sapendo che l’ostacolo maggiore è la nostra stessa distrazione.