Cronaca carnevalera di un Pepino

Descrivere il carnevale in America Latina e in questo caso in Bolivia è un’impresa ardua che mi mette in difficoltà. Lascio quindi il posto alla narrazione che fa il mio amico Pepino che rivedo anche quest’anno uscire dalla sua bara dal cimitero generale di La Paz tra pianti, canti e balli. Riporto le sue parole che cerco di tradurre al meglio e provando a capire la sua calligrafia e i suoi scritti che mi ha lasciato un paio di giorni fa su dei tovagliolini di carta della taverna Averno dove ci siamo salutati condividendo una ultima chicha (la bibita alcolica che viene dalla fermentazione del mais), cercando di mettere tra parentesi alcuni miei chiarimenti per quanti non conoscano pienamente la cultura boliviana. Di seguito leggerete quello che sono riuscito a tradurre dai suoi appunti e, riportando quanto scritto da Pepino, voglio chiarire sin da adesso che le opinioni, le battute e lo stile non proprio letterario delle sue note sono tutta farina del suo sacco e del suo carattere abbastanza particolare che non riflette per nulla le mie opinioni o il mio modo di raccontare certi fatti, ma cercherò di fare del mio meglio per riportare fedelmente il messaggio che ci vuole lasciare.  Veniamo a noi.

“Ecco ci risiamo i soliti pianti di una cholita, immagino, vestita di nero, del resto come sempre in questa occasione, e di una processione colorata di personaggi, che se non conoscessi direi provenienti dagli inferi ma alla fine si sa all’inferno ci si diverte tantissimo, e poi del resto da dove vengo io? Dagli inferi? Dal paradiso? Direbbe, il tipo vestito di rosso con naso aquilino che continuo a incontrare durante l’anno dalle parti dell’Acheronte, dal Purgatorio. So solo che ogni domenica prima di Carnevale fanno un gran fracasso da queste parti svegliandomi mio malgrado.

Rimettiamoci la maschera, due colori di ordinanza e un naso lungo, il vestito un po’ sgualcito ma anche di due colori, quest’anno facciamo rosso e verde, e basta con accostarmi a mio cugino l’Arlecchino, ho detto due colori e non pezze colorate di poco stile che sembrano coriandoli appiccicati, ho un certo stile io, più stile Deadpool però più allegro e meno aderente.

Ecco la luce, hanno tolto il coperchio della bara. Noooo ancora il Ch’uta. Cioè diciamocela tutta, avete presente il Ch’uta, cappello stile gangster anni Venti, però quello del tipo che mi sta davanti è rosso, una maschera rosa con degli occhi azzurri dipinti e sproporzionati con tutto il resto, e poi un barba (sarà poi una barba?) colorata, con i colori della bandiera boliviana, e pure dei baffetti neri che fanno tanto Ekeko. Ok, ho deciso lascatemi morire, nel caso specifico lascatemi morto. Il tipo, il Ch’uta, mi bacia, che poi con i virus che circolano ultimamente, come osa! Eh no! Questo è troppo, rimango immobile, quest’anno non mi nuovo.

Oh oh, sento d’improvviso un silenzio mortale, sì lo so siamo in un cimitero, ma da queste parti non sono proprio silenziosi. Devono essere rimasti scioccati, ecco le cholita riprendono a piangere, ma ho deciso, quest’anno non mi sveglio. Caronteeeeee riportami indietro!

Ah no, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta. Vedo, aprendo leggermente gli occhi, che sembro la China Supay o Diabla, grande amica del carnevale di Oruro, una signorina con il vestitino alquanto striminzito, piume colorate grandissime dal suo cappellino elegante, coloratissima, ma con stile, stivaloni fin sopra il ginocchio, tacco da Femme fatale: Caronte rimani dove sei! Che fa? Che fa? Yes, un besito señorita, tu osa pure. Salto sulla bara e adesso sì che abbia inizio il Carnevale della città tra le nubi, La Paz. Sottobraccio alla signorina e, cambiando braccio in continuazione con altre cinquanta signorine dallo stesso stile, iniziamo con il ritmo che più mi piace, la Morendada.

Superiamo a ritmo di trombe e tamburi il gruppo dei Morenos, dei tizi con mascheroni dorati o argentati e un vestito anche questo dorato e argentato dal peso di una nave da crociera, che si muovono con l’eleganza di un branco di elefanti che guadano un fiume. Superato il gruppo ci imbattiamo in una persona incatenata che si dimena come un pazzo rotolandosi per terra. I vecchi burloni come tutti gli anni continuano a prendere in giro l’uomo bianco, dipinto di nero che per il suo colore viene fatto schiavo. Però questa volta non è una processione di schiavi provenienti dall’Africa, che dalle miniere delle Ande vengono trascinati incatenati nelle valli tropicali per lavorare nelle grandi piantagioni, ma un gruppo di ballerini che rivive quei momenti, non è tristezza ma allegria quella che tutti noi vogliamo trasmettere con questo ballo.

Superata la performance, arriviamo in quello che letteralmente è una bolgia infernale, ci troviamo a un centinaio di chilometri da La Paz, precisamente a Oruro (il carnevale di Oruro è patrimonio orale e intangibile dell’UNESCO). Quando dico bolgia infernale voglio dire proprio questo. Centinaia di diavoli che ballano tra fuochi, fumi vari a braccetto di orsi, di persone vestiti da orsi, un condor e un piccolo gruppo di angeli dalle grandi ali bianche. Ah finalmente a casa!

All’arrembaggio tutti a invadere la chiesa della Virgen del Socavon, faccio strada io all’invasione, tutti dentro la chiesa, e giù le maschere, qui el Tio non può vederci. Eh non sia mai che el Tio, il diavolo divinità delle miniere a cui minatori prima di entrare offrono foglie di coca, alcool e sigarette, si incavoli scoprendo che balliamo e cantiamo per poi arrivare in chiesa e pregare la Virgen, meglio mascherarsi da diavolo Tio per non farsi riconoscere e attrarre la sua ira e poi si sa che il diavolo non vede dietro la maschere, la Virgen con i suoi angeli sì. Capitemi, anche io povero Pepino poi me lo dovrei sopportare tutto l’anno il Tio negli inferi, fino a oggi comunque  non si è accorto di nulla e non ha ancora capito che in tutto quel ballare gli angeli con gli orsi vincono a suon di cueca i sette peccati capitali e con loro i diavoli.

Scende la sera e ancora non ho menato nessuno, non può essere!!!! Già mi sta scendendo la reputazione, via velocemente giù per le strade di Oruro e già che ci sono lancio un po’ di farina, acqua e schiuma a chi mi pare ed ecco l’occasione per sgranchirmi un po’, forza avanti calci e pugni a volontà, mescoliamoci tra i ballerini di Tinku, del resto bisogna anche accontentare con piccoli sacrifici la Pachamama (madre terra), e si sa che va ghiotta di un po’ di sangue e foglie di coca masticate con il rito sacro di Pijchu, ma non facciamo i violenti, qui è carnevale, è tutto per gioco e scherzo e datemi un charango, sì quella specie di chitarra in miniatura, per dare il ritmo a questi ballerini.

Se volete però partecipare al vero Tinku e siete disposti veramente a picchiarvi ed essere picchiati fortemente, uomini o donne che voi siate, l’appuntamento è il 2 e 3 di maggio non lontano da qui, ma per quell’epoca sono già nuovamente sotto terra, fortunatamente.

La musica si affievolisce, gli ultimi ballerini lasciano le piazze, il tempo di vedere Los Caporales con il loro ballo che ricorda alcuni ritmi di saya (ballo afro boliviano) con i loro sonagli sugli stivali luccicanti, che mi avvio nuovamente a La Paz al mio cimitero.

Mi sento un po’ come il Re Momo (il re del carnevale carioca), per questo forse sarebbe il caso il prossimo anno di partecipare a comadres (la festa di sole donne il giovedì pre carnevalero) e scegliendo anche io la mia regina sfilare tra le regine del carnevale di Santa Cruz: ma per questo vedremo il prossimo anno, me lo appunto su questo tovagliolino di carta, l’ultimo brindisi prima di addormentarmi”.

Questo quello che sono riuscito a riportare, sicuramente ho tralasciato tanto, troppo, ma le parole iniziano a sparire e carnevale volge alla fine, una lacrima per un arrivederci perché qui carnevale è una burla seria.

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Antonio

Antonio Lopez y Royo, anche se il cognome può trarre in inganno, è leccese, nato e cresciuto nella penisola salentina dove, anche se la vita lo ha portato via da tanto tempo, ritorna almeno una volta l’anno. Si laurea in legge con un Erasmus in Germania, si specializza in cooperazione intenzionale a Bruxelles e inizia a lavorare nel mondo delle ONG nel 2005, lavoro per il quale si trasferisce a Roma, dove vive per diversi anni. Dopo alcune esperienze in progetti di educazione allo sviluppo in Italia, inizia a lavorare all’estero con numerose missioni tra Libano, Siria, Ghana, Colombia, Argentina, per fermarsi poi come capo progetto e rappresentante Paese in Malawi. Finita l’esperienza africana, nel 2012 si trasferisce in Bolivia, sempre come direttore progetto e coordinatore Paese: qui, oltre alla cooperazione, comincia a lavorare come professore universitario e nel 2017 inizia a Buenos Aires un dottorato in diritto internazionale ambientale; nel 2019 inizia a lavorare per COSPE a La Paz. Nel frattempo la sua vita lavorativa si intreccia con quella familiare e, nel 2015, si sposa con una ragazza boliviana con la quale ha avuto da poco due figli.

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