Babele Libano e Babele Beirut, una comunità formata da più comunità: cristiano maronita, islamico sunnita e sciita, armena, quella palestinese e i nuovi rifugiati siriani. Ma poi anche la Beirut cosmopolita degli espatriati delle ONG e dei vari organismi internazionali, delle ambasciate. Quella delle domestiche filippine ed etiopi; e quella dei benzinai bengalesi e dei ricchi sauditi. Tutte storie che si sfiorano, si incontrano e a volte scontrano. Una società da sempre avvezza agli scambi, soprattutto commerciali, che del business ha fatto la sua natura e sulla quale ha fondato il suo sviluppo, ma anche la sua rovina. Troppo ego, troppa voglia di arricchirsi che rapidamente ha moltiplicato le iniziative individuali ed esasperato la corruzione a tutti i livelli. Uno dei risultati maggiormente evidenti: l’eccesso di investimenti nel mercato immobiliare che in pochi anni ha cambiato il profilo del territorio. Colate di cemento sulla costa, sulle montagne. Palazzi piantati lì, senza aver prima creato un sistema di drenaggio delle acque reflue, senza una rete idrica adeguata, andando ad appesantire il carico di sfruttamento dei pozzi privati.
Diceva un amico di passaggio dalla Tunisia, qualche giorno fa: “ma sai che qua sembra ci sia sempre silenzio? Non si sentono le persone”. In effetti il sottofondo sempre presente è quello del traffico, auto in coda e colpi di clackson di tassisti esauriti. Di fatto i quartieri di Beirut sono sprovvisti di piazze, delle grandi vie pedonali luoghi di incontro. Ma forse anche queste appartengono al passato, fanno parte del ricordo di una società che è mutata ulteriormente e che adesso gli scambi, le contrattazioni, le fa all’interno dei locali chic di Achrafieh, o fumando narghilé nei caffè di Hamra.
Pure il vecchio suk – il mercato – distrutto dalla guerra è stato ricostruito a fruizione delle classi agiate. Là dove i beirutini andavano a fare la spesa, a chiacchierare; là dove si trovava l’anima della città, ora si trova sì un quartiere restaurato e rinnovato, ma anziché frutta e verdura vi si trovano i negozi delle marche di alta moda e il cinema multisala. Insomma, una città-cantiere che i grandi investitori stanno piano piano trasformando. L’architettura otto-novecentesca della vecchia Beirut ottomana, o quella del mandato francese (1923-1946), sta sfumando via, sovrapposta da un nuovo skyline tipico di città come New York, Hong Kong o Dubai, tradendo le ambizioni capitaliste del Libano contemporaneo. Oggi torri di cristallo come la Sama Beirut, l’immobile più alto del Paese (195 m), sovrastano le antiche strutture come la Beit Beirut, antico palazzo neo-ottomano distrutto durante gli anni della guerra civile (1975-1990) e fortunatamente recuperato come sorta di museo della memoria. Purtoppo poche sono le operazioni del genere, rispetto alle eccessive demolizioni che non solo danneggiano il territorio, ma anche il patrimonio culturale libanese. Dal 1990, al termine della guerra civile, quando i palazzi tradizionali erano ancora stimati a circa 4500, con gli anni della ricostruzione fondati sull’assenza di regole si è giunti a contarne appena 300. Una legge è stata promulgata nell’Ottobre 2017 per garantire la preservazione di queste ultime perle rimaste. Purtroppo deve ancora essere approvata dal Parlamento e si può ben immaginare che nel frattempo nuove demolizioni avverranno.
In ultima analisi, anche in Libano il passato sta cedendo il passo all’incedere incalzante di una modernità sempre più sospinta da un potere economico incurante delle conseguenze delle proprie scelte. La crisi ambientale mondiale è ben riassunta in quanto sta avvenendo in Libano e ancora non molti, da queste parti, sembrano essersene accorti.