Andare in montagna per il Beirutino può voler dire diverse cose. In passato significava trovare rifugio dallo scontro armato, dalle pazzie di una guerra fratricida. Oggi invece l’espressione ha guadagnato un aspetto decisamente meno cupo. Molto spesso sinonimo di ritorno al villaggio natale, alla famiglia. Ma anche di fuga dalla calura della capitale. O infine, e molto più prosaicamente, serve a far narcisisticamente intendere all’interlocutore che si hanno i mezzi per poter passare un fine settimana “fuori porta”.
Ognuno cerca una sua via, lungo il Monte Libano (Jabal Lubnān), 160 km di catena montuosa che costeggia il mar Mediterraneo, dal confine siriano, a nord, fin quasi a quello con il “nemico” israeliano a sud. E tra pochi giorni avrò il piacere di incontrare un gruppo di persone, in gita con il COSPE, che chissà cosa cercheranno in queste montagne. Ci sarà chi va cercando un’avventura; chi, nello splendore della valle della Qadisha – patrimonio mondiale dell’Umanità – e dei suoi monasteri incastonati nella roccia, spererà di trovare un risveglio dell’anima; o chi invece vorrà semplicemente lasciarsi trasportare dal tripudio di colori, odori e sapori di un territorio ricco di sfumature e succulente sorprese.
Per me, “andare in montagna”, vuol molto semplicemente dire scappare dall’inquinamento e dal caos della città, alla ricerca di quelle vette oltre le quali “la mia anima si eleva nel firmamento della completa e illimitata libertà; [dove] sono a mio agio, sono in pace” (Khalil Gibran).