La Bolivia ai tempi del coronavirus

“Gli bastò un interrogatorio insidioso, prima a lui poi alla madre, per constatare un’ennesima volta che i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera” scriveva Gabriel García Márquez nel libro El amor en los tiempos del cólera. Con il coronavirus il colera ha in comune solo il fatto di essere stato dichiarato pandemia; per il resto i sintomi sia dell’uno che dell’altro, nella loro differenza, fortunatamente non sono poi così simili a quelli dell’amore nella realtà.

Oggi in Bolivia ci siamo svegliati tutti un po’ più preoccupati: ieri pomeriggio c’è stato un dietrofront del governo che aveva adottato misure blande fino a questo momento e ha cambiato rotta proclamando con il Decreto Supremo 4179 lo stato di Emergenza Nazionale, la chiusura sul territorio nazionale di tutte le scuole e università, la sospensione di tutti i voli per e dall’Europa e di tutti gli eventi di massa. Questo dopo aver confermato un terzo caso di Coronavirus nel Paese e almeno una cinquantina di casi sospetti in soli due giorni. Non mancano casi di panico ed esagerazioni: ieri un gruppo nutrito di persone a Santa Cruz e un altro a Oruro hanno bloccato le strade per impedire l’ingresso negli ospedali dei casi accertati di coronavirus, in alcuni casi anche parte del personale di questi centri medici si è unito alla protesta.

Il governo sta identificando spazi alternativi per la quarantena dei pazienti positivi al virus e, oltre alle decisioni dettate dalle necessità, non mancano decisioni anche simboliche dal punto di vista politico, in fin dei conti siamo ancora in campagna elettorale dopo i drammatici eventi del novembre 2019. Tra gli edifici identificati infatti c’è la Scuola Militare Anti Impero nel municipio di Warnes, fortemente voluta da Evo Morales, grande e con tutti i servizi, che aveva già cambiato uso con il nuovo governo e in tanti scherzando indicano come una cattedrale nel deserto, un posto isolato dove nessuno va mai; c’è anche il museo della rivoluzione democratica e culturale a Orinoca, un museo dove si celebra l’ex presidente Evo Morales.

Ma a parte queste parentesi politico/satiriche si è già aperto un procedimento penale nei riguardi del personale medico di sette ospedali di Santa Cruz che si sono rifiutati di seguire un caso di coronavirus e di quanti hanno bloccato ingressi o strade per impedire la cure dei contagiati. Il personale medico ha però risposto che la propria situazione non permette la presa in carico di questi casi in quanto cliniche e ospedali sono gravemente carenti dei mezzi necessari per affrontare questa crisi. Ricordiamo anche che molti centri medici in Bolivia sono quasi al collasso per una grande epidemia di Dengue, tra i 1200 e 1500 contagi registrati ultimamente in varie zone del Paese.

Nelle grandi città come La Paz, dove vivo, si vedono sempre più persone usare mascherine protettive, in tutti gli uffici pubblici ci sono avvisi su norme di igiene per evitare il contagio e accanto a ogni sportello viene offerto un gel alcoolico disinfettante da usare prima e durante la consegna di documenti. Nelle farmacie, prese d’assalto, non si trovano più mascherine, gel, alcool disinfettante, ma per le strade molte persone offrono questi beni spesso a prezzi più alti: solo ieri 11 persone sono state arrestate per questa speculazione e rischiano alcuni anni di carcere.

Ma a parte quanto descritto la vita va avanti normalmente, i mercati sono sempre pienissimi, le strade affollate, locali e attività aperte, varie feste confermate e mezzi pubblici pieni. Alcune misure di sicurezza, quali evitare la stretta di mano o non baciarsi sulla guancia, sono veramente difficili da seguire in una cultura abbastanza calorosa come quella di tutta America Latina, per non parlare delle distanze di sicurezza dove nei mercarti si cammina gomito a gomito e in alcuni mezzi di trasporto praticamente ci si siede quasi uno sopra l’altro. Le persone che conosco spesso mi chiamano o mi fermano per strada per chiedermi della mia famiglia in Italia e nei taxi mi chiedono qualcosa sulla sospensione delle partite di serie A e delle coppe europee. In nessun caso fino ad oggi mi sono sentito isolato o evitato, anzi magari qui qualche stretta di mano e qualche bacio si potrebbero anche iniziare a evitare.

 

 

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Antonio

Antonio Lopez y Royo, anche se il cognome può trarre in inganno, è leccese, nato e cresciuto nella penisola salentina dove, anche se la vita lo ha portato via da tanto tempo, ritorna almeno una volta l’anno. Si laurea in legge con un Erasmus in Germania, si specializza in cooperazione intenzionale a Bruxelles e inizia a lavorare nel mondo delle ONG nel 2005, lavoro per il quale si trasferisce a Roma, dove vive per diversi anni. Dopo alcune esperienze in progetti di educazione allo sviluppo in Italia, inizia a lavorare all’estero con numerose missioni tra Libano, Siria, Ghana, Colombia, Argentina, per fermarsi poi come capo progetto e rappresentante Paese in Malawi. Finita l’esperienza africana, nel 2012 si trasferisce in Bolivia, sempre come direttore progetto e coordinatore Paese: qui, oltre alla cooperazione, comincia a lavorare come professore universitario e nel 2017 inizia a Buenos Aires un dottorato in diritto internazionale ambientale; nel 2019 inizia a lavorare per COSPE a La Paz. Nel frattempo la sua vita lavorativa si intreccia con quella familiare e, nel 2015, si sposa con una ragazza boliviana con la quale ha avuto da poco due figli.

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