Per affrontare la scalata al Pico ci si sveglia intorno alle 5.30. Un’ora prima dell’alba. La guida turistica, contattata la sera prima, viene a prenderti. Nella pensione è già pronta la colazione e un cestino con panini al formaggio e tanta acqua. Bisogna partire presto sia per vedere lo spettacolo dell’alba, sia per non farsi cogliere dal sole nel punto più difficile della salita. A 3000 metri il sole batte forte anche se è inverno. Non si può uscire senza la crema protettiva 50 gradi. Salire al Pico non è una vera e propria impresa ma non è neppure una passeggiata di salute. È quella simpatica via di mezzo tra un bel trekking panoramico e un po’ di impegno sportivo. Ci vogliono un’attrezzatura basica e una bella giacca a vento. Si comincia appena superato il centro di Chã das Caldeiras, che ancora dorme. Sulla strada però si iniziano a intravedere gli altri gruppetti di turisti che si avviano verso la cima. Sono divisi per hotel, per guida, per gruppo di performance (credo). Quando arrivano le prime luci dell’alba siamo sempre alle pendici del picco, e i raggi spuntano dietro il massiccio. Pian piano inizi a vedere dove metti i piedi. E per diverse centinaia di metri anche se la salita è dolce, il terreno è lapilloso e scivoloso. Poi parte la roccia. E poi tornano i lapilli. Il dislivello di 800 metri si sente soprattutto nella prima parte, quando il nostro fisico deve capire che si trova a più di 2000 metri e che forse se hai l’affanno a scavalcare due pietre un motivo c’è. Man mano che sali, a meno che tu non voglia stabilire il record della scalata (che pare sia di circa un’ora, forse meno) ti fermi a guardare giù. Chã che si allontana, la bordeira, il sole che filtra, e poi, magnifica, l’ombra del vulcano grande che si dipinge sulla bordeira rossa d’alba. Quest’immagine è davvero metaforica di come Chã e i suoi abitanti vivano il vulcano. Il vulcano domina tutto e tutto controlla. Piano piano la cittadina si risveglia e l’ombra sparisce. E noi continuiamo a salire tra soste fotografiche, riprese video e momenti di ristoro. Acqua e acqua. Intanto salgono i gruppi più disparati. In quello che ci segue ci sono tre bambini!!! In quello successivo che vediamo all’orizzonte ci sono anche tre cani! La nostra guida, il mitico Vander, alto un metro e novanta e attento a tutti i nostri cambiamenti di colore e di respiro, ci dice che ogni giorno i tre si fanno la scalata con i turisti. Sono piccoli e con gambette corte, adatti alla roccia, saltellano avanti e indietro, prendono acqua e briciole di pane quando cadono dai panini, ma soprattutto diventano le mascotte della giornata. Uno, il più famoso, forse il pioniere, si chiama Lucky. Arrivati in cima al Pico lo spettacolo è meraviglioso. Da un lato Chã e la bordeira, dall’altra

cratere del Pico. Tira molto vento quassù, ma la sosta è d’obbligo. A turni si fa un mini pic nic e poi si riparte per iniziare la discesa dall’altra parte del vulcano. Se salire è bello, scendere è la cosa più divertente del mondo. Dall’alto del Pico vedi il cratere piccolo, il Pico pequeno (che poi è quello bastardo che ha eruttato nel 2014) e tutte le diverse sfumature di lava delle diverse eruzioni. Si vedono tutte le stratificazioni di lava in una gradazione di neri e di grigi impressionanti. E poi questo mare di lapilli. Soffici. Sembra neve nera. Qualcuno infatti scende con sci e snowboard. Noi, io e Lucky per la precisione, abbiamo preso la rincorsa e ci siamo buttati. Una discesa di 200 o 300 metri in cui torni ad avere 10 anni. Saltelli, gridi, cadi e ti rialzi. Dietro di te una scia di polvere. Dentro le tue scarpe sassetti neri che non andranno mai più via. Nei tuoi capelli (almeno nei miei) una quantità di lava che formerà un intreccio inestricabile fino al secondo lavaggio. Ma alla fine è stato stupendo atterrare vicino al piccolo cratere, sentire i soffioni ancora caldi che escono dai crepacci gialli di zolfo e, con una certa nonchalance, ricomporsi, riprendere lo zaino smollato alla guida ‒ che invece non si diverte quasi per niente a questo punto della giornata ‒  e tornare alla pensione. Grande soddisfazione. Ai doloretti ci penseremo domani.

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Pamela

Pamela Cioni, fiorentina, giornalista professionista, ha lavorato per diverse testate locali e nazionali dove ha scritto di cinema, cultura e cooperazione internazionale. Si è occupata di letteratura latinoamericana per la casa editrice Caminito della quale è stata anche fondatrice. Attualmente è responsabile per la comunicazione della ong COSPE per la quale è anche direttrice della rivista “Babel”.

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