Case ufficio case protette, case sognate…

Molto del tempo della missione l’ho passato nella nostra casa-ufficio, in uno dei tanti compound della città. Il numero 14 per essere precisi: check point, controlli e guardie. Una casa per internazionali. Ma durante gli incontri di lavoro, o quando alloggiavamo in una guest house, prima di trasferirci in un luogo più sicuro anche se un po’ più asettico, ho avuto modo di soffermarmi a pensare al significato e al valore, anche simbolico, della casa qua. Soprattutto per le donne, quelle con cui lavoriamo.

Di solito sono piene di quei tappeti, famosi in tutto il mondo per i loro disegni geometrici e colori, oltre che per la loro fattura. Pulitissimi e immacolati anche se vecchi o un po’ malandati dall’usura e dal tempo, sono loro ad arredare le case e a farla da padrona, tanto che ovunque è obbligatorio togliersi sempre le scarpe (anche negli uffici e anche durante riunioni formali!). Nei salotti i tavoli sono bassi e di vetro, centrini e ricami sono ovunque sulle mensole e sulle tv spente. Grandi vetrate ovunque. E, divani colorati e anch’essi bassi, che ti permettono di appoggiarti comodo mentre mangi carne e riso o sorseggi tè verde sistemato con vassoi argentati sul tappeto.

E poi d’inverno compaiono delle grandi, belle stufe, di ferro battuto alimentate a legna. Ogni casa ha una riserva di legna e ogni notte ognuno si accende il camino personale nella propria stanza. Si impara presto a dormire con il crepitio e l’odore del legno che brucia e lentamente si spegne. Per poi ripiombare nel gelido delle case pieni di spifferi.

A Kabul ho avuto la possibilità di visitare anche un’altra casa importante: una casa protetta per le donne vittime di violenza. Una casa segreta, dove si entra dopo vari controlli e dove ci sono solo donne, bambini e operatrici. Si alternano poi visite di dottori e legali che fanno consulenza alle ospiti.

Qui ho conosciuto, nel salotto comune, tra cuscini e tappeti, le storie di tante donne per cui l’unica realtà era stata prima quella  della casa paterna, poi quella del marito, a cui erano state affidate, o spesso vendute, anche molto giovani e poi, dopo essere state scacciate, questa: una casa comune con cui condividere parole, speranze, pianti ma anche sogni. C’è chi tra loro vuole studiare, lavorare, imparare le lingue. C’è una ragazza che mi dice che vuol fare la poliziotta. Lavori, spazi pubblici, finalmente.

Quegli spazi che a molte donne qui sono negati, rinchiuse in casa come una prigione, tra la cucina, la camera da letto e il giardino interno agli ordini, del padre prima, del marito e della suocera poi. Qui invece il giardino è una specie di palestra a cielo aperto, e c’è la rete da pallavolo, le porte per il calcetto, la radio con cui si balla e si fa la ginnastica la mattina.

Da questa casa protetta, gestita da un’associazione locale che si chiama Hawca ed è tra i nostri partner locali, le donne escono appena lo permettono le condizioni di sicurezza per loro o appena riescono ad ottenere, grazie a un processo, un minimo di entrate economiche per poter essere autosufficienti e non gravare sulle famiglie. Una casa da sole, no. In Afgahanistan nessuna donna può vivere da sola, senza un uomo che sia un fratello, un parente, un figlio maschio.

Una mia collega afgana, Rohina, giovane, ambiziosa sul lavoro e single, senza intenzione di sposarsi con alcun chi, ne sogna una tutta sua, simbolo estremo di indipendenza e di affermazione. Ma davvero qui sembra, per ora, un sogno impossibile.

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Pamela

Pamela Cioni, fiorentina, giornalista professionista, ha lavorato per diverse testate locali e nazionali dove ha scritto di cinema, cultura e cooperazione internazionale. Si è occupata di letteratura latinoamericana per la casa editrice Caminito della quale è stata anche fondatrice. Attualmente è responsabile per la comunicazione della ong COSPE per la quale è anche direttrice della rivista “Babel”.

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