Paula, una storia come tante

Marzo 2012. Camminare nei quartieri di El Alto di notte è abbastanza pericoloso, non sono tranquillo, ma dobbiamo continuare il giro, abbiamo sentito di alcuni scontri tra gruppi di strada e possono esserci persone che hanno bisogno di assistenza.

Davanti ad alcune porte di ferro battuto si creano lunghe file di uomini di tutte le età: una luce rossa indica che sono case di appuntamento, ci piacerebbe poter arrivare ad aiutare anche le schiave dello sfruttamento sessuale in questi luoghi, ma è troppo difficile poter creare un contatto diretto in un mondo dove la criminalità e il narcotraffico fanno da padroni.

Ecco, dietro la viuzza a sinistra troviamo alcuni ragazzi seduti sugli scalini di un negozio di ricambi di auto chiuso da qualche mese. I miei colleghi li riconoscono, tra di loro c’è Paula e c’è Limbert. Si trovano vicino ad altri adolescenti e bambini, alcuni di loro sono stati feriti da armi da taglio, fortunatamente nulla di grave. Dopo le cure si va tutti insieme al campetto per parlare un poco e giocare a calcio; del resto con questo freddo e qualche fiocco di neve che cade giù è anche un modo per riscaldarci e socializzare.

Le due uniche regole sono lasciare armi e droga fuori dal campetto e rispettare tutti.

Prima di iniziare mi siedo accanto a un bambino nuovo avrà 5 anni. Mi chiede di dove sono, gli rispondo che sono italiano, un Paese lontano e ci si arriva volando in aereo; lui per tutta risposta si illumina e mi prega di salutargli sua madre che anche lei è volata in cielo tempo fa. Noto nelle sue mani un fazzoletto con la colla che in tanti sniffano da queste parti.

Paula ha una storia più drammatica: a 11 anni è stata violentata, una violenza iniziata in ambito famigliare già anni addietro, e poi abbandonata dalla famiglia; alcuni mesi prima ha dato alla luce in strada un bimbo che è stato affidato a delle strutture pubbliche e lei non lo ha voluto mai più vedere; non sappiamo in che condizioni di salute si trovi, ma purtroppo casi simili non sono rari. Paula vive in strada, per vivere si dedica a piccolo furti e a volte, pare, vendendo droga.

Il progetto di UNICEF in coordinazione con le istituzioni locali cui partecipavo in quegli anni cercava di dare delle alternative di vita a bambini come questi e a tutti gli altri: molti di giorno visitavano il Centro e venivano aiutati e assistiti da professionisti, altri non li avremmo rivisti mai più, saranno divenuti un numero dei vari corpi senza nome ritrovati morti nelle strade della città.

 

Antonio

Antonio

Antonio Lopez y Royo, anche se il cognome può trarre in inganno, è leccese, nato e cresciuto nella penisola salentina dove, anche se la vita lo ha portato via da tanto tempo, ritorna almeno una volta l’anno. Si laurea in legge con un Erasmus in Germania, si specializza in cooperazione intenzionale a Bruxelles e inizia a lavorare nel mondo delle ONG nel 2005, lavoro per il quale si trasferisce a Roma, dove vive per diversi anni. Dopo alcune esperienze in progetti di educazione allo sviluppo in Italia, inizia a lavorare all’estero con numerose missioni tra Libano, Siria, Ghana, Colombia, Argentina, per fermarsi poi come capo progetto e rappresentante Paese in Malawi. Finita l’esperienza africana, nel 2012 si trasferisce in Bolivia, sempre come direttore progetto e coordinatore Paese: qui, oltre alla cooperazione, comincia a lavorare come professore universitario e nel 2017 inizia a Buenos Aires un dottorato in diritto internazionale ambientale; nel 2019 inizia a lavorare per COSPE a La Paz. Nel frattempo la sua vita lavorativa si intreccia con quella familiare e, nel 2015, si sposa con una ragazza boliviana con la quale ha avuto da poco due figli.

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