Massi di lava nera, enormi, vivi, che sembrano ancora caldi. Una strada a zig zag che li scansa e si inerpica sempre più su. Qualche antica casa in pietra sommersa da un grande mare nero. È quello che ci appare davanti negli ultimi tornanti della strada che da São Filipe porta su ai 2000 metri di Chã das Caldeiras, villaggio oggi di 300 persone, nato nel cratere nel vulcano più famoso di Capoverde, Fogo.  Nel 2014 c’è infatti stata l’ultima eruzione. Un’eruzione lenta di uno dei piccoli crateri sotto l’imponente Pico do Fogo, che ha permesso agli abitanti di organizzarsi e sposAtarsi altrove. Ero già stata qui nel 2008 e Chã da Caldeiras era una cittadina che contava circa 1000 persone che già erano scappate e tornate dopo la precedente eruzione, quella del 1995. Anche questa volta, quindi, si è ripartiti con la ricostruzione. Con fatalismo e passione insieme. La vita delle persone che abitano qui è simbiotica a quella del vulcano, il padre, il dio, dell’isola. Di andarsene non se parla. Solo i più anziani hanno deciso di fermarsi un po’ più a valle, dove il Governo ha messo a disposizione delle strutture oppure dai parenti che vivono negli altri municipi. Ma i giovani stanno tutti qui. In netta controtendenza con il resto dell’isola, che ha uno dei tassi di emigrazione più alti di tutti l’arcipelago, i ragazzi di Chã, vedono qui il loro futuro e qui vogliono rimanere. E si capisce perché: i turisti arrivano qui da tutto il mondo per dare la scalata al Pico, 2800 metri di roccia e lapilli, e ammirare dall’alto le isole di Sottovento dell’arcipelago. Inoltre è qui che nascono le viti e che l’agricoltura è più fiorente.

Questo terreno è il più fertile dell’isola. Le viti, basse e striscianti, distrutte quasi del tutto 4 anni fa, sono tornate già a punteggiare di verde il nero del terreno lavico. E sono tornate a lavorare le due cantine principali di Fogo che oggi producono vino bianco e nero, grappa e passito. Oltre al più casereccio manecon, il vino tradizionale che raramente si trova nei negozi o nei ristoranti, ma che gli abitanti ancora usano per consumo familiare. La produzione di vino, infatti, anche se è stata sostenuta da uno dei più longevi progetti COSPE, attraverso formazioni e consulenze di importanti enologi, è qui una tradizione radicata. L’ha introdotta Armand Montrond, avventuriero francese, che ricorre nella storia di quest’isola: si dice infatti che sia arrivato qui a fine Ottocento con una vite, un violino, occhi verdi e tanto fascino. Da lì sono nati il vino, la musica locale, la talaia baxu, e tanti figli. Ancora oggi moltissimi degli abitanti di Chã sono suoi fieri discendenti. E non è raro incrociare bambini biondicci con gli occhi chiari giocare tra le case in pietra recentemente ricostruite. Sì perché, dopo 4 anni, è come se Chã stesse a poco a poco riemergendo ancora una volta. In mezzo alla lava sono rinati dei piccoli hotel moderni, dei bar colorati. Alcuni funcos, le tipiche case circolari in pietra lavica e paglia, sono stati ricostruiti e altri risistemati. In mezzo piano piano la strada sta riprendendo forma, la cantina è stata spostata in un container e i turisti continuano ad arrivare e a salire sul Pico. Chã è ancora di una bellezza stordente ed emana un fascino magnetico. Non a caso insieme agli autoctoni ci sono anche molti stranieri che arrivati fin qui poi si sono fermati. Sono tutti quelli che hanno accettato la sfida del Pico. E hanno deciso di restare e ricominciare insieme a Chã. Si chiamano Alcindo, Amariza, Armando ma anche Mustafa e Cecile. Sognatori. Gente rocciosa e accogliente al tempo stesso, che qui, come le viti basse, ha radici lunghe nel terreno per resistere al vento. Su tutto, oggi come allora, il vulcano grande da scalare e la bordeira, il grande bordo del millenario cratere, a guardarci piccoli piccoli. Oggi come allora ritenterò la scalata per vedere dall’alto quello che vede anche il Pico: la tenacia e la forza degli abitanti, la bellezza, e l’uomo che convive ostinatamente con la Natura, trovandola nonostante tutto benigna.

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Pamela

Pamela Cioni, fiorentina, giornalista professionista, ha lavorato per diverse testate locali e nazionali dove ha scritto di cinema, cultura e cooperazione internazionale. Si è occupata di letteratura latinoamericana per la casa editrice Caminito della quale è stata anche fondatrice. Attualmente è responsabile per la comunicazione della ong COSPE per la quale è anche direttrice della rivista “Babel”.

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