L’Avana è una città grande, caotica, rumorosa, vivace e colorata, circondata di blu, del mare e del cielo. Non ha niente a che vedere con le grandi metropoli centro e sudamericane, all’Avana bisogna perdersi tra i palazzi coloniali decadenti e le auto d’epoca, scansando le bici-taxi spericolate, girando l’angolo e trovandosi altrove, dalla bellezza dell’Habana Vieja alla crudezza di Centro Habana, e poi nei quartieri un po’ più periferici, dove tutti si inventano da vivere tra le strade, le finestre delle case sempre aperte, i ragazzini in divisa che escono dalle scuole…
L’Avana può diventare come un grande amore, ti strega seppur non ti lasci margini per comprenderla. Caliente, appassionante ma allo stesso tempo snervante, decadente eppure creativa, di una bellezza pura, sua ed unica. Ho letto da qualche parte che qualcuno l’ha descritta come “il sogno poco prima del risveglio, bellissimo ma sfumato”.
È un posto in cui il risveglio del mattino avviene tra le rughe delle piastrelle coloniali di casa, dove vivo con i miei due bambini, uno di quasi 8 anni e l’altra di un anno e mezzo, in un quartiere dove il passato sconfitto si fa ancora sentire, attraversa fumante e rumoroso le vie del Vedado, con le sue ville coloniali, i palazzi dell’epoca capitalista dalle facciate fatiscenti e le sue strade aggrappate a ricordi sbiaditi. Aprire la porta, portare le sedia a dondolo fuori e uscire in veranda significa aprirsi al mondo, al rumore della città che aggressivo ti dà il buongiorno, e all’azzurro ondulato del mare che mi culla in un dolce risveglio, insieme ai sorrisi dei vicini che escono per andare al lavoro, o a una qualche occupazione che servirà per svoltare un’altra giornata… I pescatori già da qualche ora sono seduti lungo il Malecòn, a un paio di centinaia di metri da casa, a guardare l’orizzonte nel tentativo di pescare qualcosa da rivendere por la izquierda (in nero ndr) o da portarsi a casa, mentre alle loro spalle rapidamente aumentano gli affollati almendrones (la vecchie tipiche auto anni ’50 che funzionano come taxi collettivi ndr), che con i rumorosi tubi di scappamento scandiscono l’inizio delle giornate habanere, che scorrono via incuranti del tempo, senza il ticchettio noioso dell’orologio, tra tasselli ingialliti del domino…
Ma le mie giornate il ticchettio dell’orologio ce l’hanno, e la sveglia suona generalmente dopo il richiamo squillante di Mia, la piccola di casa: “mamaaaaa, latte!!!”. Poi però il caffè è pronto e fumante, dono quotidiano di mio marito. Mentre si prepara la colazione e il pranzo al sacco per la scuola, iniziano i mille richiami al risveglio del grande che la mattina ha la capacità di ripetere un centinaio di volte, “aspetta… 5 minuti ancora… ho sonno”. Nonostante il suo aspetto quasi nordeuropeo, la calma africana – dove ha trascorso i suoi primi cinque anni di vita –, o caraibica – dove vive da più di due –, gli è entrata nelle vene e credo ormai nell’essere. Poi in fretta la divisa della scuola, pantaloni blu e maglietta bianca, e a fatica e regolarmente un po’ in ritardo, usciamo di corsa da casa.
La tappa successiva è generalmente il mercato della frutta e della verdura, ma anche della carne, o meglio del maiale, tappa obbligatoria a quest’ora del mattino perché già intorno alle 11 iniza a non esserci più molto, per non dire quasi nulla. La lista della spesa a Cuba può rimanere la stessa per settimane, ciò che cerchi in quattro o cinque supermercati (già pre-selezionati da più di due anni di esperienza) è molto raro che si riesca a trovare. Quindi la lista rimane invariata, e la dieta o il consumo variano in base a ciò che è disponibile al momento.
Però da un paio d’anni mi sveglio in un posto che amo, che stimo, ma che rende la quotidianità una lucha constante, che galleggia nel mare tra le insidie dei tornadi, delle tempeste e degli uragani, del sapersi rialzare sempre e comunque, dell’orgoglio di un popolo che perde un po’ tutti i giorni per una vittoria di sempre. Un luogo che resiste, a pesar de todo, per continuare a cullare l’utopia, l’ideale, i sogni…