Il 96% dell’acqua disponibile a Gaza non è potabile

Lavoro a Gaza da poco meno di un anno ed ogni volta che entro nella Striscia, senza eccezioni, attraverso i tre check point, saluto Abu Mohammad, il mio taxista di fiducia, mi dirigo verso il nostro ufficio che affaccia sul mare, e penso: “hamdullillah fi lbahar”, per fortuna, grazie a Dio, c’è il mare. Per fortuna, grazie a Dio, i Gazawi hanno il mare.

Nell’immaginario comune si connette quasi sempre l’immagine dell’acqua con quella della vita. Ma a Gaza l’acqua è molto di più, ha il profumo della libertà.

In un lembo di terra lungo 45 km, che ospita circa 2 milioni di persone, definito come una prigione a cielo aperto, la presenza del mare fa respirare. È il polmone che aiuta i Gazawi a tenere viva la speranza, regalando una parvenza di normalità. Almeno questo mi piace pensare quando mi affaccio dalla finestra dell’ufficio e osservo i bambini che giocano con le onde del mare, ammiro in lontananza i pescatori gazawi, eroi dei nostri giorni, che salpano dal porto, vedo coppie di giovani che iniziano timidamente a conoscersi nei chioschi che rallegrano la Corniche della città e gruppi di donne che si ritagliano spazi di sorellanza.

Mi piacerebbe poter continuare a parlare di storie di normalità e resilienza, ma la realtà di Gaza è tutto fuorché normale e il senso di libertà che il mare regala è una mera illusione. Dal 2006 Israele ha imposto un blocco via terra, mare e aria che ha creato una crisi umanitaria senza precedenti, privando il popolo di Gaza di dignità, libertà di movimento, terra e acqua.

Quest’ultima rappresenta un’emergenza umanitaria di enormi dimensioni se si pensa che il 96% dell’acqua disponibile nella Striscia non è potabile. Gli impianti di desalinizzazione non riescono a far fronte alle necessità idriche di due milioni di persone e l’accesso all’acqua, diritto umano inalienabile, resta un bene di lusso accessibile solo alle fasce più ricche della popolazione.

Il mare, un’enorme risorsa economica in potenza, rappresenta di fatto un pericolo mortale per i pescatori che ogni giorno si spingono oltre il limite di zona di pesca imposto da Israele di sole 6 miglia nautiche per aver accesso a del pescato di qualità, rischiando la vita davanti ai colpi di mortaio della flotta militare israeliana che presiede il confine.

Gaza, però, non sprofonda, continua a galleggiare con determinazione e speranza. Quella del suo popolo, che mi insegna quanta forza si sprigiona quando si resta coesi, regalandomi ogni giorno storie di resilienza e umanità. “Noi”, dalla nostra posizione privilegiata, dovremmo far tesoro di questi insegnamenti e diffondere, con tutte le forze e i mezzi che abbiamo a disposizione, un chiaro e semplice messaggio: Restiamo Umani, sempre.

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Paola

Paola

Paola Plona nasce nel 1989 a Brescia, città con cui ha instaurato un rapporto conflittuale. Sin da piccola sviluppa un forte senso di giustizia sociale che la porta a immergersi in numerose attività di volontariato a supporto dei più vulnerabili e delle più vulnerabili. Quando arriva il momento di scegliere il percorso universitario, la triennale in Scienze politiche e diritti umani dell’università di Padova le sembra la scelta più naturale. Dopo un periodo all’estero, continua gli studi con una Magistrale su Diritti umani e Medio Oriente a Torino. Nel 2015, grazie ad un’esperienza di volontariato con Operazione Colomba, si innamora della Palestina e delle sue contraddizioni. Dopo un Master in Cooperazione internazionale presso l’ISPI, decide di tornare in Palestina, dove vive da quasi tre anni. Da circa sei mesi lavora al COSPE come cooperante sul tema dell’eguaglianza di genere nella Striscia di Gaza e Cisgiordania occupata.

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