In Zimbabwe il lockdown vuol dire senza lavoro e senza cibo

“Ma davvero giocano con gli stadi vuoti?” chiedeva l’autista un po’ perplesso fino a qualche giorno fa e questo era stato finora l’unico commento sulla pandemia in corso. Poi il virus è arrivato prima in Sudafrica, dove lui prende le medicine per il diabete tramite il fratello che lavora lì, dove vanno a scuola molti dei figli delle famiglie della classe media e, soprattutto, da dove arrivano la maggior parte delle merci necessarie per un Paese che non produce quasi nulla di suo. Poi i primi casi sono arrivati anche in Zimbabwe e ora la situazione sembra molto più reale, preoccupante. La scorsa settimana il Presidente ha dichiarato il lockdown fino al 21 aprile.

Il centro di Harare, dalle foto che circolano sui social media, ha un aspetto surreale. Zone dove normalmente brulica la vita sono totalmente vuote. Sfortunatamente non si riescono a trovare foto delle periferie più popolate, dove la vita si svolge attorno ai mercati di quartiere, non riesco neanche a immaginare queste zone deserte. La parte della popolazione che ha potuto si è organizzata per far fronte al lockdown, facendo scorte di cibo e di beni di prima necessità. Noi nello spirito del progetto “Polli” abbiamo messo in cortile delle galline da uova. Purtroppo per la maggior parte delle persone questo è semplicemente impossibile.

Il grosso della popolazione non ha comunque accesso alle cure mediche. Il sistema sanitario è pressoché inesistente, i medici sono in sciopero da mesi, da gennaio ad ora ci sono stati decine di morti per dissenteria, febbre tifoidea e ovviamente malaria. Il Coronavirus si aggiunge semplicemente come una causa di morte in più. Per molti stare in casa significa non avere accesso ad alcuna fonte di reddito e quindi di sostentamento, il lockdown pone davanti a una alternativa agghiacciante: rischiare di prendere una malattia potenzialmente mortale oppure avere la certezza di non sfamare le proprie famiglie.

Fonte Foto: Facebook

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