O di quanto si possa capire di un Paese parlando con l’autista

“No, Maria Vittoria, non c’è nessuno ad aspettarmi, sono uscita dall’aeroporto ma il tassista non c’è”.

Questo è l’inizio del mio viaggio da Huambo a Waku Kungu nell’entroterra angolano, nella provincia di Cuanza Sud dove andrò a visitare un progetto che vuole proporre un metodo sostenibile di produzione del carbone. Attualmente, infatti, le comunità del luogo, nella stagione secca, bruciano ettari di foresta per produrre carbone, lasciando distese di terreni senza vita.

Mi aspettano quasi quattro ore di buche che tagliano in due quella che una volta era una distesa infinita di alberi. Uno slalom continuo per evitare di distruggere la macchina. Maria Vittoria me lo aveva detto, non mi aveva avvisato invece, forse per discrezione, del mio tassista. “Tranquilla l’ho chiamato, il tassista ti ha già visto e ti sta venendo incontro”. Mi guardo intorno e l’unica persona che vedo guardare dalla mia parte è un ragazzo con le stampelle, senza una gamba. “Non può essere lui – mi dico – non si può guidare con una gamba sola, magari mi accompagna alla macchina dove c’è l’autista o semplicemente non sta guardando me…”. Invece in un batter d’occhio arriva davanti a me un grande sorriso: “Bom dia Barbara, bem vinda a Angola”.

In tre ore e mezza mi racconta un pezzo di vita, un pezzo di Angola. Con una naturalezza spiazzante dopo pochi chilometri, in cui ci si buca pure una ruota (iniziamo proprio bene questo viaggio), mi rivela che quella gamba l’ha persa quando aveva 14 anni sopra una mina, lo stesso giorno in un cui è morto suo padre in guerra. Ecco lì, in un attimo, un pezzo di storia in carne e ossa davanti a me. Mi spiega come, durante il conflitto, migliaia di persone hanno abbandonato le campagne diventate troppo pericolose. Di come gli animali di piccola taglia siano spariti perché mangiati dalle persone affamate per sopravvivere. Di come la guerra non finisse mai.

Micheal ha gli occhi tondi vivaci e il sorriso di un bambino. Mi racconta di come, grazie al fratello che a Luanda ha fatto i soldi, può guidare questa macchina, sì, per fortuna con il cambio automatico. E di come in queste distese infinite di terra che stiamo attraversando, lontano dalla capitale, non sia arrivata ancora la luce, né l’acqua, di come non ci siano scuole, ospedali, trasporti e di come si muoia ancora di malattie prevedibili. Mi spiega che qui i bambini spesso non arrivano ai tre anni (l’Angola ha il terzo tasso di mortalità infantile al mondo, con un bambino su 6 che muore prima dei cinque anni, dato UNICEF Ndr); che le coppie fanno tanti figli, perché sono il loro futuro, si investe sulla quantità visto che la qualità non si può offrire. Allora meglio avere tanti figli così qualcuno potrà lavorare e sfamare la famiglia.  Ora parla quasi da solo e si chiede come sia possibile che un Paese ricco come il suo (nel 2014 il Paese aveva il terzo PIL dell’Africa sub-sahariana, dopo Nigeria e Sudafrica, Ndr) abbia un popolo così povero. Come sia possibile che il governo non faccia nulla per la sua gente. Come sia possibile che non ci siano industrie dove le persone possano lavorare e il Paese possa produrre beni per il proprio fabbisogno. Di come sia possibile che non s’investa sulla propria terra e sulla propria gente. Io annuisco in silenzio. Poi si zittisce pure lui, sta pensando.

“Barbara?”, si gira a guardarmi, serio (e io fisso con orrore la strada piena di buche), “tu ringrazi Dio tutti i giorni?” “Mah, guarda Micheal, io vago tra l’ateo e l’agnostico”. Lui mi guarda (e io penso solo alle buche), tra l’incredulità e la pietà, e inizia un tentativo di conversione lampo. Lui, come tante persone in Angola, come in tanti Paesi del Sud del mondo, fa parte della chiesa avventista, e visto il fervore nel tentativo di farmi cambiare idea mi chiedo se il proselitismo non sia forse un precetto di questa religione.

“Barbara, ma come fai a non ringraziare Dio per ogni giorno di vita che ti dona?” Eh Micheal, lo so posso anche capire il tuo punto di vista in qualche modo, e ora, guadando fuori da questo finestrino, vedendo scorrere questi baobab maestosi, questa terra rossa, questo sole splendente, me lo chiedo anch’io perché non ringrazio Dio ogni giorno.

E poi mi racconta meglio di quella gamba che gli ha dato tanti problemi, che stava per morire in ospedale e che dentro era morto: non aveva più volontà di andare avanti. Poi ha trovato Dio e tutto è cambiato, grazie a lui ora guida una macchina, guadagna bene, ha una moglie e due figli meravigliosi. Io mi trovo a pensare che Dio non c’entri nulla, che sia stata la sua forza di volontà e una mano del fratello a trasformare la sua vita. Come mi ritrovo a pensare che questa terra così bella, ricca di materie prime ma presa in ostaggio dal malgoverno e dalle speculazioni sembri abbandonata da Dio.

Ma questo a Micheal non lo dico, annuisco in silenzio. Perché nonostante tutto Micheal il suo Dio non lo abbandona.

Barbara Menin

Barbara Menin

Barbara Menin, veneta di nascita e cittadina del mondo dai 18 anni. Dopo are lavorato vari anni come art director in agenzie pubblicitarie a Milano e Londra, a 30 anni cambia vita e si trasferisce nel nord del Perù. Torna nel 2012 per lavorare con COSPE nell'ufficio di comunicazione e raccolta fondi.

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