Per la terza volta in due anni arrivo a Kabul: atterro dopo aver sorvolato le cime brulle e rocciose delle montagne che dividono l’Afghanistan dal Pakistan. Un colore tra il grigio e il marrone da cui non ti aspetti che prima o poi spunti una città. Invece, improvvisamente, intravedi una distesa di case: basse e grigie. Strade polverose. Lo stesso grigiore delle montagne. Kabul è ancora un’immensa nuvola di polvere immersa tra le montagne e molte case, o più spesso baracche, che si inerpicano verso la cima come piccole lumache: lamiere, finestre rotte e, al posto del vetro, il cellophane.

Sono le case dei poveri, dei tanti afgani che arrivano nella grande città dalle province più pericolose, spinti dall’avanzata dei talebani e, adesso, dell’Isis che qui, come nei Paesi arabi si chiama Daesh. La notte si vedono solo rare luci a illuminarle. Difficile che qui arrivi l’energia elettrica. Così come l’acqua. Il centro della città ha invece zone che una volta dovevano essere residenziali e molti palazzi ricordano ancora vagamente il loro splendore. Ville con mura e giardini interni, inferriate di buona fattura e tante vetrate. Anche queste molto spesso ormai distrutte. C’era anche un fiume, al centro di Kabul. Adesso è una specie di discarica a cielo aperto, con delle spallette. Intorno tante altre baracche oppure palazzoni di matrice sovietica, a ricordare anche quella dolorosa dominazione.

La prima volta che ci atterrai Kabul mi era sembrata la rappresentazione esatta di una città in guerra per chi non ne aveva mai viste prima. Come me. Case diroccate, iniziate e non finite, rovine in mezzo di strada, cemento da ricostruzione ovunque e nessun lavoro in corso. Palazzoni tristi, sbreccati e disabitati. Senza finestre e senza porte. Moschee di varia grandezza e, nella zona centrale, i cosiddetti compound. Trincee di muri di cemento armato alti più di 10 metri che nascondono ambasciate, istituzioni internazionali, alberghi, case di politici. Tutt’intorno filo spinato e militari afgani e stranieri di guardia. Una città in guerra appunto.

Quella prima volta, quando iniziai a registrare mentalmente tutte queste cose e cercavo di decifrarle per riuscire a capire qualcosa di questo Paese anche dal suo aspetto, ero arrivata portandomi in borsa il libro di un amico che raccontava del suo viaggio lì nel 1975. Esattamente trent’anni prima di me. Cercavo, dove possibile, tracce di quel viaggio antico. Che tanto aveva appassionato il mio amico e tanti ragazzi di quella generazione che attraversavano i Balcani, la Turchia e l’Afghanistan per arrivare poi in India. Molti di loro si erano poi fermati qui, conquistati dalla cultura, dal paesaggio aspro e misterioso, dagli alberi di ginepro sotto cui bere il tè e dalla vita intensa e alternativa della notte: musica, droga, sesso omosessuale. Fulcro di tutto questo, diceva il mio libro, era Chicken Street. Nei miei girovagare in auto questa volta ho avuto la fortuna di incrociarla: era impossibile rintracciare qualcosa di quanto si raccontava nel libro, ma era ancora una stradina rumorosa, comunque viva, piena di negozietti e venditori di tappeti. Avevo 20 minuti di tempo per andare a vederla, entrare nei negozi ed eventualmente comprare qualcosa. Il tempo, dice la nostra sicurezza, in cui potenziali rapitori ti identificano, chiamano rinforzi e ti portano via. Ecco con queste premesse non sono riuscita a comprare (quasi) niente.

Scopri cosa fa COSPE in Afghanistan

Pamela

Pamela

Pamela Cioni, fiorentina, giornalista professionista, ha lavorato per diverse testate locali e nazionali dove ha scritto di cinema, cultura e cooperazione internazionale. Si è occupata di letteratura latinoamericana per la casa editrice Caminito della quale è stata anche fondatrice. Attualmente è responsabile per la comunicazione della ong COSPE per la quale è anche direttrice della rivista “Babel”.

Articoli correlati