La Corniche, dove vivono tutte le anime di Beirut

A Beirut ho la fortuna di abitare vicino alla Corniche. Ormai da quando c’è mio figlio al mattino ci alziamo presto. Quindi colazione, asilo e due passi sul lungomare prima di andare in ufficio.

La Corniche per me è il luogo della luce. La luce naturale, quella che con diverse condizioni atmosferiche riesce a cambiare l’umore della città. Se il mattino è chiaro e l’aria rarefatta, lo scintillio delle increspature del mare trasmette un’energia capace di dare la giusta carica per affrontare la giornata. All’inverso, se c’è foschia e nell’aria ristagnano i fumi del traffico urbano, allora il fiato si fa corto e la passeggiata breve. Lasciando una sorta di angoscia nell’anima. Tuttavia non è una condizione completamente negativa, dato che ciò significa che alla sera la sfera rossa discendente farà riflettere la sua luce nei miliardi di polveri sospese nell’aria e Beirut si ricoprirà di una sfumatura rossastra, arancio e rosa facendo accorrere masse di beirutini a farsi selfies di fronte a questo spettacolo. L’unico aspetto positivo dell’inquinamento atmosferico si direbbe…

Chi invece sulla Corniche è sempre presente in ogni condizione meteorologica sono i pescatori. Ce ne sono di due tipi. Quelli che si sistemano lungo il parapetto e, gli uni accanto agli altri, usano la pesca come occasione per socializzare, formando lunghe schiere di canne puntate al cielo, distese di cassette con gli attrezzi e ammassi di mozziconi di sigarette sparsi a terra. Poi ci sono i solitari. Quelli che vedi scendere sulle rocce sottostanti e posizionarsi sul loro ciglio più esterno, con i piedi a mollo a ogni ondata. Li vedi là, con la loro canna da pesca in mano e lo sguardo rivolto all’orizzonte. Immersi nei loro pensieri, sembrano quasi dei capitani di vascello, di una nave chiamata Beirut.

Altri consueti frequentatori sono gli ossessi dell’abbronzatura. Anche questi presenti tutto l’anno, basta che esca un raggio di sole. Loro per lo più se ne stanno raccolti in gruppo, seduti sotto l’antenna nella spiaggina dell’Università Americana. Chiacchierano, fumano shisha (narghilè) e osservano il quotidiano scurirsi del proprio corpo dietro ai loro occhialoni Ray Ban.

Continuando un po’ più giù, ci si imbatte sui gruppi di ragazzotti in costume e scarpe da ginnastica, presi in competizioni di tuffi dall’alto della balaustra. C’è un punto dove le rocce aprono un piccolo varco, lasciando un accesso sottostante la passeggiata a un piccolo attracco per i gozzi dei pescatori. Diciamo che questi rappresentano il lato sbruffone della città. Quel volersi mostrare impavidi, uomini veri che sfidano la sorte col sorriso stampato in faccia.

Giunti infine alla grande scacchiera da scacchi giganti al termine della passeggiata, troviamo i freestylers sulle loro BMX senza freni. Saltano sulla ruota anteriore, si portano su quella posteriore e piroettano. A volte cadono. Loro sembrano stare lì, di fronte alla vecchia moschea di Ain El Mreisseh, come a dire “Hey! Beirut è altrettanto moderna di New York e noi ne siamo il futuro”.

Finita la passeggiata, mentre mi avvio verso l’ufficio, mi lascio alle spalle la Corniche, nella sua luce sempre cangiante, ad accogliere le varie espressioni di questa città, un po’ mediorientale, un po’ occidentale, unica nel contesto regionale nel quale si trova.

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Federico S.

Federico Saracini, senese, operatore umanitario e babbo a tempo pieno, scrittore a tempo perso, ha lavorato in contesti molto diversi, dal conflitto interetnico in Darfur, passando per l’urgenza terremoto ad Haiti (seguita da quella per il colera), fino all’emergenza migranti alle frontiere nord dell’Italia in anni più recenti. Oggi collabora con COSPE in Libano, dove coordina una campagna di sensibilizzazione sulla gestione dei rifiuti, la loro riduzione e riuso. Tifa Viola.

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