Capire cosa volessi fare “da grande” mi ha portato a girovagare non poco tra le più disparate materie, dipartimenti e corsi universitari. Finite le scuole superiori, un Istituto Tecnico Commerciale, l’unica cosa di cui ero sicura e che non avrei mai lavorato per una banca e non sarei mai stata una contabile, quei cinque anni mi avevano sfiancato nonostante fossi discretamente brava. Decisi di partecipare all’orientamento organizzato dall’università e un corso attirò la mia attenzione: Cooperazione Internazionale. Sfogliando il dépliant, al solo comparire della parola “economia” lo richiusi riconsegnandolo quasi indispettita. Seguii il mio migliore amico al dipartimento di lingue. Optammo per Ceco, Inglese e Arabo. Il Ceco non faceva per noi, mentre l’Arabo ci aveva portato a una sede distaccata, Caserma Sani, nel cuore della Roma mediorientale. Cambiai corso e mi iscrissi a lingue e letterature orientali, Cinese come prima lingua e Arabo come seconda. Sarei voluta andare in Cina, ma per vicinanza scelsi l’Egitto, dove i tre mesi previsti in un primo momento sono poi diventati quindici anni. Le congiunzioni astrali vollero che nel frattempo il corso di cooperazione si era scisso in tre corsi-interfacoltà, uno di questi era “Lingue per la Cooperazione”. È così che, con uno stage fatto sempre in Egitto, divenni cooperante o qualcosa di simile. Questo per arrivare a quello che considero il mio successo memorabile, un progetto su più Paesi, Egitto, Tunisia, Giordania e Palestina. Ogni partner aveva scelto il proprio esperto-Paese, una figura di riferimento a cui affidarsi per l’organizzazione delle attività in ognuno dei Paesi, e io venni scelta come esperta per l’Egitto. Non è descrivibile quanto fossi impaurita da quel ruolo, paura che si è trasformata in terrore nel momento in cui ho capito che gli altri esperti erano tutti locali, esperti del proprio Paese nelle proprie rispettive lingue. All’orizzonte vedevo affacciarsi la mia disfatta. Come potrò capirli tutti? Si, è vero, erano tutti arabi, ma ci sono delle differenze abissali tra i dialetti. Arrivai in Tunisia piena di terrore e al tavolo degli esperti tutti notarono la mia estraneità, unica europea. Sta di fatto che ci capiamo, non hanno bisogno di tradurmi nulla, né in termini linguistici né in termini sociali, sorprendendo tutti e in primis me stessa e finalmente mi sento all’altezza della posizione che ricopro e di quelle che gli altri esperti mi offrono, nelle loro organizzazioni, nei loro Paesi.
Quello è stato il mio momento-successo, essere considerata una loro pari, un’egiziana, essere riuscita a integrarmi con sorprendente semplicità a un tavolo di arabe e arabi, lasciando che tutti dimenticassero la mia provenienza.