Non uso la sveglia a Benguela, perché a svegliarmi – verso le 7.30 – sono i rumori intorno alla mia stanza: la signora delle pulizie che spazza il cortile, il guardiano che termina il suo turno, le mie colleghe che lottano contro il risveglio. Loro, da buone italiane, non riescono a essere attive prima di aver bevuto qualche tazza di caffè e hanno bisogno di calma e tranquillità quando si svegliano. Io invece non ho bisogno che di un po’ di musica, e già sono pronta a lavorare e chiacchierare. Quindi, una volta che mi sono districata dalla zanzariera sopra il letto, per un po’ cerco di rimanere in disparte, limitandomi alla mia camera e al bagno, senza disturbare il faticoso risveglio delle altre.
La camera durante la notte è diventata un congelatore, per il mio abuso dell’aria condizionata: qui in Angola fa molto caldo per me che vengo dallo Swaziland, dove (almeno nella capitale) le temperature raramente si alzano a livelli di sudata. Nonostante mi piaccia il caldo in generale, per dormire ho bisogno di un po’ d’aria fresca, mentre le mie colleghe sembrano essersi abituate bene a questo clima e si accontentano di tenere le finestre aperte.
A fine marzo, arrivata da poco, ho avuto la dengue e da allora ho un’autonomia energetica molto più bassa di prima. Dicono che sia normale: la febbre e tutti gli altri sintomi passano, ma per qualche settimana resta una grande stanchezza, oltre a fenomeni psicologici come ansia e depressione. Sono sintomi lievi ma costanti, che però nulla sono in confronto alla febbre a 39 che mi ha costretto a letto per dieci giornate intere! Perciò, durante questi giorni in particolare, ho bisogno di lavorare il più possibile la mattina, per poi riposarmi il pomeriggio.
Prima di raggiungere l’ufficio mi prendo qualche minuto per leggere i messaggi del mio compagno, che è ancora in Swaziland e, a causa del fuso orario, si sveglia almeno un’ora prima di me (in realtà anche due ore prima, visto che deve poi guidare quasi un’ora per arrivare al suo ufficio). Come al solito, mi chiede qual è il mio programma della giornata, e questo mi costringe a pensarci da subito. E così comincia la preoccupazione, perché devo chiamare a Tizia e scrivere a Caio: quindi non aspetto più, prendo dei biscotti dalla cucina e mi sposto in ufficio, un piccolo edificio nello stesso compound dove abito.
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